Oscenica, gran finale per la rassegna proposta da Divina Mania

Sul palco del Comunale spazio al pluripremiato “Cantico dei Cantici” di Fortebraccio Teatro

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    Carmen Loiacono

    La rassegna Oscenica, proposta al Teatro Comunale dal collettivo Divina Mania, non poteva chiudere meglio la sua prima edizione: un parterre pieno, soprattutto di giovanissimi – come del resto è quasi sempre stato durante l’intera programmazione -, ha salutato uno degli spettacoli più attesi, il pluripremiato “Cantico dei Cantici” di Fortebraccio Teatro che debuttò lo scorso anno proprio in Calabria in anteprima nazionale a Castrovillari, per Primavera dei Teatri. Uno spettacolo non “semplice” ai più – all’uscita da teatro, qualcuno ha espresso qualche perplessità, ma per lo meno è uscito di sala pensando e a questo serve il teatro -, una messinscena di sicuro impatto, dai tratti forti, espressione dei nuovi linguaggi teatrali, quelli che Oscenica si propone di promuovere. Protagonista sul palco è Roberto Latini, eccentrico dj che si alterna tra l’on air e il fuori onda, volutamente transgender, col volto truccato, vestito di viola, mentre declama un adattamento del Cantico dei Cantici.
    Latini dà corpo al testo, nel senso letterale: le parole sembrano un flusso continuo, legato a tremori e movimenti reiterati delle gambe, delle braccia. L’attore è un condensato di nervi, tendini, respiro e voce che proietta il testo in una visione assolutamente fisica, sebbene trascendente: di fronte al perpetuo “agitarsi” di Latini, alle strette allo stomaco, al vivere l’amore in ogni fibra, nello spettatore è evidente quanto la sensazione sia sentimento, e quanto la sublimazione passi per la potenza, unica sopra ogni cosa, della parola.
    Latini lo sa bene e mette mano al testo biblico rendendolo più “comprensibile” – laddove i gesti, in scena, non arrivano -, svincolandolo da ogni interpretazione, liberando le parole. E dandogli un’impronta contemporanea: sono soprattutto le musiche a farlo per lui – Placebo, Carrà secondo Sinclair -, e le citazioni di cui è disseminato lo spettacolo, che delineano l’impossibilità del sentimento nello spasmodico abbassamento dell’amore a sola carne. Tocca alla Deborah di “C’era una volta in America”, ripetuta in loop fino alla fine con “che peccato”, suggellarne, così come era nel film di Leone, l’amarezza per ciò che avrebbe potuto essere.  
    Per Latini, a prescindere dall’importante lavoro di (ri)scrittura, quella del Cantico è prima di tutto un’immensa prova d’attore che non a caso gli è valsa il Premio Ubu 2017: più che mai in questo caso il corpo è a disposizione della parola, suo obbediente strumento. Le luci, cupe – di Max Mugnai -, incorniciano il susseguirsi delle frasi, così come le musiche – di Gianluca Misiti, anche lui per queste, Premio Ubu 2017 -, perfettamente integrate in un quadro nel quadro, tra la panchina a dondolo, i microfoni e le cuffie.

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