I Coculi di Catanzaro: gli odori, le putiche, la gente, il venditore di neve a quattro centesimi al chilo

Un'altra pagina del passato. Racconta una Catanzaro di altri tempi

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    Nel rivedere la propria città nell’immaginario di una volta, sembra quasi di sentire le vecchie carrozze trainate dai cavalli o diversamente lo stridore sulle rotaie dato dal passaggio del tram o ancora il brulichio di signori e signore imbellettate, nella loro passeggiata nel Corso di Catanzaro. Una immagine che oramai vediamo solo nelle foto d’epoca, scatti che sembrano aver fermato il tempo nel suo evolvere, con le sue particolari strade o i tradizionali vicoli della città. La Catanzaro di “altri tempi”, come direbbero alcuni, era caratterizzata da quella vita cittadina espressa in particolar modo nel centro città. La “promenade” giornaliera permetteva di assaporare le belle giornate e l’alta borghesia catanzarese non mancava di farsi vedere nelle lussuose carrozze o nelle passeggiate a piedi. Anche lo stesso Teatro “Real Francesco I” era motivo di grande interesse tant’è che agli spettacoli partecipava ogni tipo di classe cittadina, anche quella formata dal ceto più basso. L’antico “Corso Vittorio Emanuele” (oggi Corso Mazzini), era dunque luogo di ritrovo di quella popolazione che rappresentava “l’élite”, ma ugualmente di quella appartenente al “popolino”. E proprio il cosiddetto “popolo” era quella parte considerevole della città, che le dava vita mediante il commercio ed ugualmente con quel vissuto cittadino che rappresenta quella sorta di caratteristica distinguibile in ogni città. Uno dei luoghi di ritrovo del commercio era ad esempio l’attuale “Piazza Grimaldi”, un tempo “Piazza Mercanti”, comunemente conosciuta dai cittadini come “’a chiazza”.

    Ed era proprio lì che si svolgeva il mercato, in un particolare tramestio di persone anche provenienti dai paesi con le loro ceste piene di ogni genere di prodotti, “ …venivano in città da Gagliano (un tempo comune a parte ndr), da Tiriolo, da Settingiano, da Marcellinara, da Pentone, da Taverna, da Gimigliano, e vendevano a seconda delle stagioni e dei mesi diversi: uova, ricottelle, cetrioli, panini di farina di castagna”. Così Giovanni Patari descrive questa piazza, brulicante della parte più attiva della città e così ancora descrive un luogo vicino a questa piazza, anch’esso parte integrante di quel centro storico della nostra Catanzaro: I Coculi. La descrizione che egli ne fa, riconduce alla vita quotidiana che vi svolgeva, con le sue botteghe, i suoni, i colori e quella vita che se pur modesta, appariva quanto mai “viva”. Ecco il rinascere dell’antica “Piazza Vecchia”, così denominata una volta “Piazza Larussa” facente parte tuttora de i “Coculi”. In un susseguirsi di “descrizioni”, il Patari, fa rivivere quella piazza mediante la gente del popolo che vi lavorava.

    Ben distintamente descrive ad esempio la modesta vita di “Mastru Dominicu” detto “’u curiusu”, già all’epoca non più in vita, abitante proprio in un “basso” di quella piazza, certamente non adorno di mobili di lusso e con quattro “carlini” egli viveva benissimo accontentandosi di poco, con moglie e figli. A quei tempi, tutto aveva un costo ridotto e i venditori nemmeno “mercanteggiavano”, forse, erano più impegnati ad “amoreggiare” con le giovani servette che quotidianamente si recavano a far la spesa. In quella piazza e negli adiacenti vicoli ogni cosa dava un senso alla stessa città, anche il suono del vecchio maniscalco, Don Raffaele Elia, che nel suo grembiule di pelle ferrava asini, cavalli e buoi. Ora la sua bottega era occupata da altro, da una piccola “barberia” in uno dei locali, mentre nell’altro viveva la vedova di “Peppinu ‘u nivaru”, che in un vicino magazzino vendeva la neve a quattro centesimi al chilo.

    Figure che costituivano o avevano costituito uno dei “risvolti” della città, con la sua parte più povera, ma ritenuta valida e necessaria poiché rappresentativa di quelle inconfondibili tradizioni. Si aggiungono altri personaggi e il Patari ne coglie anche le sfumature ironiche come i contrasti fra due fruttivendoli, infatti così cantava Peppino Verardi, per l’appunto venditore di frutta: “ Per dispettu ‘e Seguledda, ribassavi ‘a vajanedda: cincu sordi ‘nu chilò…sciolirò, sciolirò….”. E dunque, tornando all’animosità “cocolesca” (usando lo stesso termine del Patari) non ci si può dimenticare del venditore di “baccalà” e “stoccafisso” o delle diverse bettole esistenti in quella parte di città, le più accreditate quelle di “Rirazzo e Pipìu”, entrambi sempre a gara per chi vendesse il vino migliore, mentre alla taverna de ‘u Càcaru si trovavano i “dijuneddhi” e dell’ottimo soffritto. Accanto alla taverna vi era “ ‘a Locanda d’a vozza”, nome che ben si distingueva sulla pancia di una brocca in creta, dove in lungo e stretto locale, in una serie di letti posti in fila, ospitava i senzatetto della città che lì passavano la notte per cinque soldi a letto.

    La piazza con il tempo si svuotò, specie quando venne aperto il “Mercato” cittadino e nulla più si udiva di quel fervore di ambulanti e venditori. Il Patari ne coglie un triste e profondo silenzio, quasi come se la grande piazza dormisse in un tranquillo sonno. Oggi quell’antica animosità mercatale, forse manca, ma in quei singolari vicoli dei “Coculi” ancora si percepisce l’odore delle vecchie “putiche”, la vita di gente semplice, del loro dialetto e quella forte tradizione che mai tramonterà, come accade per alcuni personaggi che molto hanno rappresentato, costituendo una bella immagine e un importante trascorso della città, da far conoscere soprattutto alle nuove generazioni.

     

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