Le Corajisime, bambole segnatempo della tradizione calabrese

Ne parla Andrea Bressi, catanzarese doc, nonché documentarista, cantastorie, polistrumentista, esperto di cultura e tradizioni popolari

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    La tradizione popolare ha sempre rappresentato lo “specchio” degli usi, dei costumi, del folklore e anche della religiosità che poteva contraddistinguersi nella semplice vita dei paesi. Le radici di un abitato sono custodite proprio nelle tradizioni, tant’è che anche la “tradizione orale” ha molto contato per quella diffusione affidata ai ricordi dei più anziani, rappresentando quel filo conduttore che non doveva essere mai spezzato.

    In questo periodo, a chiusura del Carnevale, esiste una particolare tradizione seguita anche in Calabria, che riconduce alle “Corajisime”. A raccontare della consuetudine delle “Corajisime” è  Andrea Bressi, catanzarese doc, nonché documentarista, cantastorie, polistrumentista, esperto di cultura locale e tradizioni popolari, egli, con una accurata ricerca condotta per svariati anni, ne trae le origini studiando per suo conto e avvalendosi dell’aiuto degli anziani dei paesi, che molto sanno delle tante tradizioni e dei loro sviluppi temporali. Da un suo elaborato si apprende che la “Corajisima” altri non è che la personificazione della “Quaresima”. Nella credenza popolare rappresenta la moglie di Re Carnevale rimasta vedova nella notte del Martedì Grasso, con sembianze non proprio edificanti, tant’è che veniva descritta come una vecchia, brutta, alta, smilza e avvolta in stracci neri (spesso infatti si diceva “mi para ‘na corajisima” per indicare una persona non proprio bella).

    Dal mercoledì delle ceneri, in alcuni centri della Calabria e come descrive per l’appunto Bressi, è facile vedere appese alle finestre, sulle porte o sospese da una casa all’altra, delle bamboline di pezza con un lungo abito nero, con occhi, naso e bocca ricamati. Sono appunto le “Corajisime”, pupe fatte artigianalmente in casa e la loro fattura risale a tempi molto remoti. Come descrive Andrea Bressi, nella sera del Martedì Grasso (Marti ‘e l’azata) venivano tolti tutti i salumi consumati quotidianamente, si consigliava ai bambini di dormire con la bocca chiusa, perché dopo la mezzanotte poteva aggirarsi questa singolare vecchietta per punire tutti i golosi (pare si dicesse che passando avrebbe “scottato” la gola con acqua bollente – “passa corajisima e ti scadda ‘u cannarozzu”).

    Proprio per tale motivo, durante la Quaresima si poneva fine ad ogni tipo di festeggiamento con le grandi abbuffate, dando un tempo di penitenza con comportamenti quasi come se si dovesse “onorare” un lutto: in casa non si spazzava, non si sistemavano i letti, non si cucinava, addirittura gli uomini non si radevano e le donne non si intrecciavano i capelli, insomma una sorta di “ravvedimento” che veniva seguito per lo più tutti i “mercoledì” e i “venerdì” nell’arco di quel tempo determinato. Le pupe “Corajisime”, vestite con degli abitini neri o alle volte colorati, richiamano quelli delle pacchiane calabresi e vengono dunque appese per le vie dei paesi proprio per ricordare questo periodo di “penitenza”.

    Alle volte sono anche addobbate con frutta secca, castagne, uvetta, aringhe, code di baccalà ed altri cibi non vietati nel digiuno quaresimale. Particolare nota è che fra le dita delle “bambole Quaresima”, viene posto un filo che va dalla “rocca” al “fuso”, oggetti anticamente usati per filare e posti nelle rispettive mani della bambola. Il filo stava a rappresentare il tempo dei quaranta giorni che sarebbero passati sino alla Pasqua. Alle “pupattole” viene aggiunta un’arancia che in genere viene posta ai piedi o in testa, ove vengono inserite sette penne di gallina, ogni domenica che passa ne viene eliminata una, tutto ciò funge da “datario” per arrivare poi a quella finale (in genere di colore bianco) che verrà eliminata nella giornata del Sabato Santo, quando le campane riprenderanno a suonare per annunciare la Resurrezione di Cristo, determinando la fine del lungo periodo quaresimale e quindi il trionfo della vita sulla morte. Infine, le “Corajisime” vengono in genere bruciate o ridotte in cenci, ma c’era anche chi le seppelliva sotto la sabbia o, come accade ancora oggi, possono essere conservate per poi sfoggiarle l’anno successivo. Tutto questo rappresentava una sorta di “calendario rurale” dal profondo significato e, proprio in virtù di questo significato nasce un sodalizio di appassionati, con esperti e studiosi di svariate regioni che si è unito per valorizzare e documentare i riti quaresimali.

    Si è dunque formata la “Rete Nazionale Bambole Quaresima” di cui Andrea Bressi è membro attivo dal 2016 e di cui fanno parte, come già detto, numerose regioni come l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, il Molise, la Puglia ed anche la Calabria. Ogni anno a rotazione, nelle varie sedi, vengono istituiti Convegni sul “tema” che si vuole, per l’appunto, mantenere e divulgare, cercando di porre in evidenza le sue peculiarità. “Sono oramai diversi anni – afferma Andrea Bressi – che mi occupo della particolare tradizione delle “Corajisime”. Anche a Catanzaro si rivede ancora in alcuni quartieri e raccontarne i singolari aspetti riferiti ad altri paesi, non può che accrescere il valore della tradizione in sé. La pandemia ha purtroppo rallentato ogni tipo di attività, ma il nostro intento è ugualmente quello di divulgare le belle tradizioni popolari, sperando che questa Pasqua di “liberazione” possa coincidere con la definitiva scomparsa del virus dando la possibilità di proseguire il nostro “iter” divulgativo, vivendo pienamente quel particolare mondo delle tradizioni”.

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