Le Giare: un attimo che durò un tempo infinito e un temporale che si portò via tutto

Il ricordo di Franco Cimino sulla tragedia del camping di Soverato

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    di FRANCO CIMINO

    Ho atteso quest’ora, le ventidue di sera, per scrivere di vent’anni fa. E dire che ci avevo pensato per più giorni. Lo sentivo arrivare, questo anniversario, come un cannone su un carro. Il rumore delle ruote pesanti lo avvertivo da lontano progressivamente crescere via via avanzando.

    Quando si fermerà e dove? La domanda batteva già forte. Si riposerà o esploderà, e verso dove e contro cosa?

    L’altra domanda si agitava più forte. Con la stessa intensità sembrava di udire, come in accompagnamento funerario, rantoli di dolore morsicato da animali selvatici e colpi di pietra pesante come scarponi battenti su un fragile torace di bambino. Cos’è questo vento freddo che muove l’aria calda e umida di questa notte di piena estate di un dieci settembre che vuol continuare a restare agosto? Agosto e luglio e giugno di un’estate bellissima.

    Quest’anno bellissima pur se funestata da un male invisibile e da un dolore cieco.

    Un’estate come da tempo non se ne vedeva. Vendicativa e liberatrice. Salvifica e ammonitrice. Un’estate vera. Piena. Di sole chiaro, luminoso, bruciante. Di cielo sempre limpido, azzurro e celeste, cangianti. E con un mare, e che mare! Sempre quieto, pulito, caldo, trasparente. Carezzevole. Rassicurante. Un’estate calabrese, questa, con pochi ritorni e tanta nostalgia. E la promessa di nuovi incontri, di vecchi abbracci, di amori veri. Di solitudini interrotte. Anche da quel cielo che di notte si fa nero per fartici tuffare nuotando nel profondo dei tuoi sogni. O per dare alla luna il suo doppio mare di regalità. Lo ricordo bene questo rumore di carro d’acciaio che ruota sull’asfalto bucato. Questo rumore assordante, che sento e si avvicina. È lo stesso di vent’anni fa.

    Quella notte del dieci settembre era iniziata già il pomeriggio con l’acqua che cadeva dal cielo come enormi secchiate sulle spalle.

    Io me la sono presa. E parecchia. Mi giunse inaspettata mentre tornavo dalla corsetta (allora ancora la facevo) sulla spiaggia di Soverato, nella direzione imprudente che mi portava lontano dal centro abitato. La perseguo, quella direzione, ancora oggi, in cui però vi cammino ( a passo veloce, consigliano).

    Soverato è la bella Città che da trent’anni incontro piacevolmente nel periodo estivo, quando non mi riesce di fuggire verso la mia Marina.

    Qui la famiglia di mia moglie e le mie due figlie hanno la dimora estiva da sempre. E da tutto ci si può allontanare, se non sei in guerra, ma non dalla famiglia, dai propri cari più preziosi. La casa è all’ultimo piano e si vede il mare. Quella notte che iniziò di pomeriggio, nel mentre cresceva, non riposò. Nè se stessa, né le persone. La pioggia forte si fece temporale e, questo, uragano.

    Dalle finestre serrate filtravano accecanti le luci dei lampi, i tuoni riproducevano il bombardamento di guerra, che io ho avuto la fortuna di non conoscere mai. Però la paura si avvertiva e tanta. Dalle nostre protettiva altezza e mura consolidate la minaccia si avvertiva, eccome! La si sentiva più gravata sulle fragili cose, le strade, le case basse e vecchie, le persone più esposte alle cose fragili e vecchie, alla condizione personale indifesa. Non so se pregai, quella notte bianca. Forse no, anche se lo facciamo tutti difronte al pericolo.

    Specialmente, quello che arriva dal buio. E la notte, senza luna e senza stelle, con nuvoloni scure che radono i tetti delle abitazioni, è buio pesto.

    Poi c’erano le figlie da tranquillizzare anche se la loro mamma ci riusciva benissimo. La mattina l’uragano cessò, la luce col sole tornò a illuminare tutto. Affacciarsi fu facile, illudersi che tutto fosse passato senza colpo ferire fu altrettanto facile. Solo il mare, ancora alto e gonfio d’acqua di un verdastro scuro, turbava molto. E quel silenzio muto che veniva da nord, versante Montauro, che trascinava lo sguardo ad appena duemila metri da me. Neppure l’intrecciarsi delle sirene di mezzi pubblici diversi, riuscì a interrompere quel suono muto di disgrazia colpevole. La più brutta, perché associa la forza incontenibile della natura alla “ irresponsabilità” umana. Quella che ha lasciato per decenni un campeggio sulle falde di un fiume, per giunta non curato e non protetto. E l’altra irresponsabilità: lasciare che quel luogo fragile strapieno di persone delicate, in vacanza “ premio” per la loro particolare delicatezza, e i loro amici di cuore, restassero lì, sotto la più dura minaccia, senza l’avviso del pericolo e senza che qualcuno ben attrezzato li portasse via. Li conducesse al sicuro.

     Fu un attimo che durò un tempo infinito, e il temporale si portò via tutto.

    Gli bastò un soffio di vento per ripulire quel terreno franoso sul quale con lo sputo dell’inganno furono erette cattedrali di cartapesta. A terra, coperti di fango e lamiere, sono rimasti, dono della pietà della natura, dodici ospiti del camping. Dodici corpi. La stessa pietà non si manifestò sulla tredicesima vittima, quell’eroe tenero in un corpo da maciste, che sparì nel nulla dopo essersi prodigato per salvare, riuscendovi, tante vite umane. Si chiama Vinicio, e faceva il volontario per aiutare i disabili a vivere una vita più dignitosa e sicura. Non lo faccio mai quando parlo e quando scrivo, ma questa volta volta voglio integralmente trascrivere una poesia bellissima. È “ Lampo” di Giovanni Pascoli. Ascoltatela, leggendola, dalla voce dolente del poeta:
    “E cielo e terra si mostrò qual era:
    la terra ansante, livida, in sussulto;
    il cielo ingombro, tragico, disfatto:
    bianca bianca nel tacito tumulto
    una casa apparì sparì d’un tratto;                       
    come un occhio, che, largo, esterrefatto,
    s’aprì si chiuse, nella notte nera.”

    Dice tutto lei, la Poesia. La dedico ai morti uccisi in quella notte della disgrazia annunciata. E ai loro familiari. La dedico anche ai sopravvissuti che nel cuore trattengono un dolore enorme, incompreso. Irrisolto. Non compensato da nulla.

    Neppure di un’adeguata celebrazione di questo sordo ventennale, per fortuna che ci ha pensato, con semplicità, Vincenzo Bertolone, il nostro Vescovo, il nostro Amico.

    A noi tutti, rivolgo un monito che, nascosto, si muove tra le poche parole della poesia.

    Esso ci dice che la terra è affidata all’uomo perché la viva e della terra si nutra. Ci dice che essa non è un dono individuale di cui liberamente disporre, ma un bene che dobbiamo consegnare sano e integro a chi verrà dopo di noi. Ci dice che la terra è ricchezza, che per produrne di nuova, però, non deve arricchire chi la sfrutta e la consuma per costruire ingiuste ingorde ricchezze personali. A noi calabresi dice pure che ci resta poco tempo ormai, e molto poco territorio, per salvare la terra che Leonida Repaci fece disegnare e plasmare da Dio per farci felici tutti. Partire dalla terra, in tutti i suoi molteplici aspetti, rappresenta l’ultima possibilità che abbiamo per “ricostruire” la Calabria. Si è fatto tardi, la scrittura ha rallentato sui ricordi e più volte si è interrotta per l’emozione. È da poco entrato l’undici settembre. Fa caldo anche di notte. Il cielo è sereno. E ci sono le stelle. In questa bellissima estate lontanissima da vent’anni fa.

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