Non nel nostro nome. Non nel nome dei calabresi

"Il generale non si allarmi: non era solo la sua controfigura ad andare in onda, ma è l’intera Calabria a non riconoscersi nel quadro pietoso e melmoso diffuso da un pessimo modo di fare televisione"

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    Povero generale. Peccato non ci sia un nuovo Dostoevskij: forse soltanto Fiodor Michailovic potrebbe avvicinare la descrizione al reale dramma personale di quest’uomo che nel giro di ventiquattro ore è passato dagli altari alla polvere e così, impolverato come una polpetta aromatizzata al fiele, è finito in pasto alle belve del gran circo mediatico. Non si dovrebbe mai finire di imparare. Eppure la perseveranza nell’errore da parte di Saverio Cotticelli ha veramente del diabolico: non ha voluto ascoltare nemmeno l’ultimo monito giunto da dietro le quinte da Maria: “La devi finire, devi andare preparato in televisione”.

    Voce che ha gridato nel deserto. Il generale in televisione c’è ritornato con una cartellina in grembo: ben misero scudo contro il fuoco di interdizione cui l’ha sottoposto una pattuglia ben attrezzata a colpire nei punti deboli, a infierire dove il bersaglio mostra cedimenti, a utilizzare i più efficaci trucchi del mestiere per trappare un virgola qualcosa nello share domenicale. Finanche dalla più ragionevole componente della squadriglia è venuto il colpo a sorpresa, sotto forma di un sms dell’amica che ha i due anziani genitori in Calabria e che, ascoltando il resoconto delle terrificanti esperienze in quel lontano lembo d’inferno, è in pena per le loro sorti.

    Comunque, come anche nel libro più brutto c’è sempre qualcosa di buono, anche dal più fuorviante dei talk si può ricavare qualche notizia utile, qualche squarcio di realtà nascosta: potevamo noi immaginare che il generale trovasse rifugio nella caserma dei carabinieri, solo, una brandina e un tavolino, a consumare un panino e una birra ogni sera, forse a lume di candela, così, per precauzione, come gli era stato suggerito in alto loco, “in piazza Matteotti – dixit il sindaco De Magistris che ha moglie calabrese e pertanto, non fosse che per questo, se ne intende – dove c’è un procuratore che sta lavorando molto bene”.
    Se poi il generale avesse veramente voluto tributare un omaggio alla presidente Santelli, con la quale – ha confermato nonostante il contrario venisse affermato dai banchi del centro destra nel Consiglio regionale di sabato – ha lavorato in assoluto accordo fino all’ultimo, condividendone ogni atto, bisogna pure che gli si dica che in poco più di due ore con la sua testimonianza dalla Suburra calabrese ha mandato in fumo tutto quanto la presidente in otto mesi aveva cercato di fare, nel tentativo di ricostruire un’altra immagine della Calabria. Se ci fosse riuscita, con Muccino e Minoli, è tutto da verificare. Anche ci sarebbe da chiedere come mai tutti hanno paura della Calabria però è tanto ambita dal generone romano appena se ne presenta l’occasione, ghiotta, naturalmente.

    Ma ciò che fa veramente inorridire è il ricorso alla frase fatta per eccellenza, alla perorazione di circostanza massima: quel richiedere e finanche l’ottenere “le scuse ai calabresi”. Mortificante per chi li richiede e per chi le porge, inutili e irritanti per chi li dovrebbe ricevere e le respinge in toto, proprio perché i calabresi non sono i briganti, i disgraziati, i pecoroni ancora una volta così raffigurati nell’Arena di Giletti. Dove, accanto ai leoni di tastiera di ormai riconosciuta valenza, si sono potuti apprezzare anche i mostri di televisione che schiumano bava, espellono tonsille, strabuzzano gli occhi e gonfiano giugulari. Lo facciano pure, se qualcuno gradisce. Ma non nel nostro nome, non nel nome dei calabresi.

     

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