Processo d’appello rapina Sicurtransport: quattro pene confermate, due riduzioni, un’assoluzione

Riformata la sentenza di primo grado. Il colpo portato a segno nella notte tra il 4 e il 5 dicembre del 2016 fruttò al commando un bottino di circa 8 milioni di euro

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    Un’assoluzione, due riduzioni di pena con esclusione dell’aggravante del metodo mafioso, quattro condanne confermate. E’ l’esito del processo d’appello “Keleos” a carico degli imputati, accusati di avere assaltato nel dicembre del 2016 il caveau dell’istituto di vigilanza Sicurtransport di Caraffa.

    Il collegio presieduto da Loredana De Franco (a latere Ippolita Luzzo e Giovanna Mastroianni) ha riformato la sentenza emessa in abbreviato nei confronti di Pasquale Pazienza, difeso dagli avvocati Aldo Casalinuovo e Salvatore Staiano, che è stato assolto (in primo grado era stato condannato a 10 anni e 8 mesi).
    La Corte ha inoltre escluso l’aggravante mafiosa e ridotto la pena da 14 anni a 10 anni e 8 mesi per Giovanni Passalacqua, difeso dagli avvocati Anselmo Mancuso e Elisabetta Gualtieri, e per Dante Mannolo, difeso dagli avvocati Falcone e Gambardella. Confermata la sentenza di condanna emessa dal gup per Carmine Fratepietro, Matteo Ladogana, Alessandro Morra e Leonardo Passalaqua.

    IL COLPO

    Il colpo portato a segno nella notte tra il 4 e il 5 dicembre del 2016, quando da poco si erano chiuse le urne del referendum istituzionale, fruttò al commando un bottino di circa 8 milioni di euro. Tanto riuscirono a portare via i malviventi nella rapida azione durata circa 20 minuti, e durante la quale vennero esplosi anche dei colpi contro una pattuglia delle Volanti allertata dai residenti.  Si trattò di una vera e propria azione militare: una quindicina di persone a volto coperto e dotate di armi da guerra assaltarono la sede della Sicurtransport nella zona industriale di San Floro, alle porte del capoluogo, disseminando chiodi e incendiando undici autoveicoli lungo le strade d’accesso per ritardare l’intervento delle forze dell’ordine, e utilizzando una ruspa dotata di martello demolitore per sfondare il muro del caveau.
    Particolarmente meticolosa la preparazione del colpo: i malviventi conoscevano il posto e le vie di fuga, e avevano anche isolato i collegamenti telefonici della zona e utilizzato un dispositivo per disturbare le frequenze radio delle forze dell’ordine.
    Il tempestivo intervento della Polizia costrinse però i malviventi a darsi alla fuga prima di ultimare il lavoro, lasciando all’interno del caveau circa 40 milioni di euro destinati a banche e attività imprenditoriali.

    LE INDAGINI
    Le indagini condotte dalla Squadra Mobile e coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia di Catanzaro, che si sono avvalse anche del contributo dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e della Squadra Mobile di Foggia, hanno consentito di fare luce sull’episodio criminale ricostruendo il ruolo dei basisti locali e accertando il loro collegamento con alcuni malviventi pugliesi della zona del Cerignolano, specializzati nel settore. Già nell’immediatezza del fatto erano emerse analogie con alcune rapine che si erano verificate in Puglia.
    Ruolo importante nell’attività di indagine hanno avuto le dichiarazioni di una collaboratrice di giustizia, legata sentimentalmente ad uno degli organizzatori del colpo, che ha fornito agli investigatori riscontri su fatti e circostanze relativi al suo compagno ed al ruolo primario che ha avuto nella vicenda.

    In particolare è emerso dalle indagini che la rapina fu resa possibile grazie alla complicità di un dipendente dell’Istituto di Vigilanza, responsabile della sicurezza del caveau, che fornì le informazioni circa l’esatto punto dove operare la “spaccata” così da realizzare il colpo nei tempi contingentati previsti dai malviventi.

    I calabresi coinvolti nella rapina si sarebbero occupati in particolare di reperire le informazioni dal basista e di procurare le autovetture utilizzate per i blocchi stradali ed il mezzo cingolato utilizzati con il quale è stato demolito il muro di accesso al caveau, oltre che della logistica finalizzata alla permanenza clandestina a Catanzaro del commando assaltatore composto dai malviventi pugliesi.
    Ad alcuni degli indagati era stata contestata l’aggravante della metodologia mafiosa in quanto una parte dei proventi è stata corrisposta alle famiglie di ‘ndrangheta che hanno influenza sulla zona.

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