Biga alata, rete di scuole: Giuseppe Ferraro al Classico Galluppi

La rete di scuole Biga Alata mette insieme docenti e ragazzi provenienti da Locri, Serra San Bruno, Lamezia, Cosenza, Catanzaro che hanno incontrato il filosofo Giuseppe Ferraro


In una regione da sempre disunita, plurale sin nelle sue origini, divisa e frammentata, la rete di scuole Biga alata compie un piccolo grande miracolo, mettendo insieme docenti e ragazzi, piccoli e grandi, provenienti da Locri, Serra San Bruno, Lamezia, Cosenza, Catanzaro. Un intreccio che si è realizzato in tante occasioni durante l’anno e che si è compiuto infine ieri, presso il Liceo Classico di Catanzaro, nel confronto con il filosofo Giuseppe Ferraro, grande maestro di dialogo con le nuove generazioni, a partire dai più piccoli, e di una “filosofia fuori le mura”: che cura i legami e crea comunità. Alle sue parole, al lungo e intenso scritto che ci ha regalato appena partito da Catanzaro, affidiamo il racconto della giornata:

“Utopia è dove sei quando non sei in nessun luogo. È quando sei dentro di te. L’utopia è il luogo interiore. È intima. È quel luogo che non esiste e che c’è. Nessuno può vederlo. Si può capire. È vedere quel che manca in quello che c’è perché ciò che c’è sia veramente quello che è. Una pratica che può apparire un giro di parole, basta però riflettere a quel che manca alla mia città perché sia veramente com’è. Come la sento e la vivo e come vorrei che sia perché solo così è veramente quel che è. Anche una città, un luogo, ha la sua intimità, la sua interiorità. C’è un’utopia del luogo che appare alla vista che è capace di sentirla. La pratica della filosofia è a questo vedere che s’indirizza. Non è però semplice. È quello che vedo quando penso, è quello che sento di sapere e non so dire. È cominciato così il nostro incontro a Catanzaro dopo che ho ascoltato con intensa emozione le relazioni di quante ragazze e ragazzi di scuole diverse di questa regione bellissima si sono avvicendate raccontando la loro esperienza di filosofia portata ai bambini e vissuta da se stessi. Ci siamo incamminati verso ciò che chiamiamo filosofia per capire che ne è della sua pratica e ci siamo ritrovati a parlare di quel Sé che abita in ognuno e che non sappiamo ma che sentiamo di sapere senza saperlo dire. È davvero strana la condizione umana. Si dice che l’uomo si distingue dagli altri animali per il linguaggio, si distingue perché parla. Anche gli altri animali hanno per il loro linguaggio, soltanto per noi è diverso. L’uomo è l’animale che parla senza sapere cosa dire. Ognuno di noi parla anche senza sapere nemmeno il significato delle parole che usa e poi parliamo senza sapere quello che diciamo e senza saper dire quel che sentiamo di sapere. Ci sono di quelli che lo dimostrano così apertamente che parlano per dire cose che offendono e stravolgono, irritano e sollevano inimicizia, inventando anche ad arte, senza però capire le conseguenze. “Imparare a parlare” era il corso che tenevo in Germania. È strano questo nostro modo di parlare senza riuscire a dire, senza saper dire quello che vorremmo esprimere. Il fatto è che uno può conoscere bene una lingua e saperla parlare bene, ma non sapersi esprimere. 
Così siamo andati dialogando, passando da voce a voce, da volto a volto, in un’attenzione straordinaria di tanti, siamo stati in tanti, in quella aula magna della scuola guidata da una Preside Straordinaria, Elena de Filippis.

Non è stato allora così sorprendente che avviandoci verso ciò che chiamiamo filosofia sia subito venuta fuori la condizione di sé, il proprio sapersi e conoscersi, quel “chi sono” che ognuno sente di sapere ma non sa dire. Aleandro di Locri ha dato nome a questo dialogo intenso e avvolgente. Già, bisogna dirlo, a Locri i Greci consigliavano di mandare a studiare i giovani perché era quella la città interiore, espressione di democrazia e cultura. Dove sia finita quella Locri, è facile capire, come anche perché è finita si capisce. Ma dove sia finita è dentro l’animo di ognuno che la abita e la vive, in intima utopia. E come sia finita importa così poco ricordare perché vale di più capire come possa ritornare da dentro noi che l’abitiamo ad essere quella reale. I ragazzi raccontavano della sorpresa di trovare i bambini delle scuole primarie dove erano stati pronti e solleciti a parlare in filosofia, erano “preparati” ha detto qualcuno, capaci di dare risposte straordinarie alla città dei desideri e a come essere felici. Non deve poi così sorprendere, i bambini sono i più vicini all’inizio della vita. Pensano ricordando non quello che hanno già vissuto, perché pensano ricordando quello che non hanno vissuto, sentono il ricordo della vita così come vorrebbe essere pensata anche dagli adulti, che invece ne hanno perso la memoria. Abbiamo così parlato di questo doppio fondo della memoria. Platone distingueva la “mneme” e l’”anamnesi”, dicendo proprio questo, che la mneme è la memoria del ricordo, è fatta dall’immagine di quel che abbiamo vissuto. L’anamnesi è invece il ricordo di quel che non abbiamo vissuto. Il medico che ci chiede di riportare l’anamnesi delle malattie che non abbiamo avuto ma che sono presenti nella vita dei familiari usa ancora così quella parola, che però dovrebbe riportare dalla medicina alla cura della filosofia da dove è venuta e capire che è il ricordo di ciò che non abbiamo vissuto, ma che è stato in altre vite, è come sempre presente in ogni vita, il desiderio di un mondo che c’è e non esiste. Il doppio fondo della memoria è questo, c’è quello delle cose che sono accadute e quello delle cose non sono avvenute in quel che è accaduto. La memoria è dei fatti successi, ma anche del desiderio di quelli che non sono succeduti. Il desiderio è la voglia della vita che sta a noi far diventare volontà d’amore. La memoria non è senza il desiderio che giace al fondo di un tempo che, pure se trascorso, non è mai passato. È il ricordo del presente. La memoria che dovremmo avere di quello che viviamo come qualcosa che non è stata prima ed è eccezionale. Questo abbiamo di fatto vissuto in quell’aula magna del Liceo Galluppi. 

Devo ringraziare Massimo Iiritano e Luna Renda e Raimonda Bruno, Elena de Fillippis sempre e tutte le prof che hanno reso possibile questo incontro. Sì, c’è stato chi raccontava dei bambini che chiedevano a cosa serva la filosofia, dove arriva. Non ci sono contenuti. Il racconto di Raimonda finiva così che la filosofia come è pratica del saper sentire quello che non si sa esprimere ma che si dire pienamente a chi ti vuole bene raccontando di te. È il guardarsi negli occhi e stare bene insieme. 
Siamo in tanti in noi stessi, uno nessuno centomila ripete la ragazza ricordando Pirandello. L’altro al quale riesce ad aprirti con fiducia, li ricompone queste tanti che si disperdono, li raccolgono, nel fanno quel che dice logos, il leghein, l’altro che ti è amico ti raccoglie in te stesso. ascoltando con gli occhi il tuo racconto.
Poi siamo andati in carcere a continuare a chiamare quel desiderio come ritorno in se stesso. Ed è il ritorno il fine di ogni sapere. Lo è per la fisica perché a saperla si ritorna all’origine della “fusis”, della natura e della vita. Lo è per la geometria che fu “inventata” per ritornare a casa quando si era sul mare dove non ci sono strade, ma solo linee tra gli astri che disegniamo in figure, angoli e percorsi di ritorno. Il primo libro fu scritto in cielo. Ancora adesso la sera raccontiamo ai bambini i miti guardando scritte sul cielo le figure che li rappresentano. Parlare del ritorno in sé in carcere, del ritorno a casa, è intendere quel sentire se stessi nei legami di chi ti vuole bene e che si fa significante del bene che senti come principio del cammino della tua vita. Così abbiamo parlano della “declusione della libertà” che avevano letto con tanta attenzione. La declusione è il cammino che si fa sul bordo del cerchio del percorso della propria vita avendo lo sguardo mirato a quel centro che guida i tuoi passi lungo tutto l’arco della vita e che quando ne perdi la vista e il pensiero perdi anche te stesso. Lo “stesso” che accompagna il “sé” è come ritorno in te pensando a chi ti vuole bene e si fa significante del bene che sovviene, anamnestico, in se stessi. Il “sé” senza “stesso”, si scrive con l’accento, perché diversamente sarebbe “se”, solo un’ipotesi, quando si accompagna allo “stesso” allora si scrive senza l’accento perché è quello e non altri, inconfondibile. Lo “stesso” è l’altro da cui ritorno ad essere, lo specchio dove a guardarti ti riguardi.

In quell’aula magna abbiamo anche tenuto il gioco di come capire se si è veri amici, vere amiche oppure solo amiche così per un tempo o un’occasione. È rischioso stare a questo gioco. Bisogna guardarsi negli occhi di chi ti è amica e amico. I ragazzi non hanno avuto esitazione, hanno rifiutato, cominciando già senza cominciare a lasciarsi andare a quella risata stizzosa, di presa distanza e d’interruzione. Due ragazze hanno detto sì. Hanno tenuto la prova, ancora più difficile perché eravamo in tanti in quell’aula e loro sono vere amiche.
Quest’anno è stato intenso, in tante scuole, dalla mia di Selva Cafara, alle ragazze straordinarie della don Milani di Taverna del Ferro e i ragazzi del Leonardo da Vinci e delle scuole di Emilia che si prodiga con Giulio a tenere “Viva Napoli”. Ho capito una cosa che le ragazze e i ragazzi di quest’età sono più avanti degli adulti che si agitano nella rete delle contrarietà dei dibattiti politici di chi in nome dell’ovvietà perde il senso dell’umanità. I ragazzi e le ragazze di questa età sono proiettati verso la difesa della terra come vivente, parlano del clima e non sono neppure schiavi dei telefonini come si dice e come invece è per gli adulti. Lo usano come una macchina portatile che imparano a guidare. C’è stato un tempo, nell’antichità, in cui la figura del giovane e della sua educazione era affidata alla guida della biga, bisognava essere dei bravi auriga. E i filosofi puntualmente chiamano a figurare il percorso educativo nell’auriga, da Parmenide a Platone e non solo. Quella biga adesso è il telefonino e la tecnologia, bisogna diventare auriga di una tecnologia alata, non per allontanarsi dal mondo, ma per vederlo da lontano con lo sguardo della nostalgia di quel che non può finire così, riportando il desiderio di viverlo come il mondo che ancora non esiste e che c’è. Mi viene quasi di proporre che alle prossime elezioni politiche siano i bambini e gli adolescenti, i più giovani a votare, avremmo un partito come insieme di tutti gli altri, si chiamerebbe Unione, per una società comune di comunità sociali”.